Francesco Bianco

Chi ha paura del «Basic English»?

La conoscenza dell'inglese nelle facoltà umanistiche

La riuscitissima tavola rotonda organizzata dall’Accademia della Crusca ha sollecitato la mia riflessione su un tema che, prima da studente, poi da impiegato (presso l’Ufficio programmi europei di un ateneo statale) e da addottorando, infine da docente, ho sempre considerato fondamentale; un tema che richiama memorie ed esperienze di oltre quindici anni trascorsi nell’università italiana.

Mi pare che la presenza del professor Azzone abbia orientato l’attenzione di tutti gli interventi successivi verso il problema della lingua o delle lingue di cui servirsi per insegnare le discipline scientifiche (nel senso di scienze ‘dure’). Con argomentazioni diverse, legate alla diversa formazione culturale dei relatori, è stato difeso il diritto di cittadinanza della nostra lingua come strumento di formazione e di trasmissione del sapere scientifico.

Nulla si è detto, invece, delle discipline umanistiche. Se è lecito nutrire dei dubbi nei confronti di una «messa al bando» dell’italiano dalle facoltà scientifiche, è doveroso prendere atto della deplorevole povertà del repertorio linguistico di chi frequenta le facoltà umanistiche.

Un problema, di fondamentale importanza ma inaffrontabile in questa sede, è quello della scarsa confidenza che molti studenti (di tutte le facoltà, immagino) hanno con l’italiano scritto, retaggio di un sistema scolastico carente di cui l’università, in particolar modo proprio le facoltà umanistiche, non può non farsi carico.

C’è poi il problema delle lingue straniere in genere e dell’inglese in particolare.

Il primo aspetto negativo è costituito dalla deprecabile abitudine, frequente in molti atenei italiani, di impartire in italiano i corsi di lingua, letteratura e cultura straniere; abitudine che permette agli studenti dei corsi di laurea in lingue di completare il proprio percorso di studi senza raggiungere un livello avanzato di conoscenza degli idiomi in cui si specializzano.

Un secondo aspetto, su cui varrebbe la pena riflettere, è il generale scarso livello di competenza dell’inglese da parte degli studenti degli altri corsi di laurea (a parte lingue, dunque) in discipline umanistiche, sia in confronto ai loro omologhi di altri Paesi europei ed extraeuropei, sia in confronto ai loro colleghi italiani delle facoltà scientifiche. Questi ultimi, benché in ritardo rispetto ai fisici, matematici, ingegneri di altri Paesi, sono comunque forzati ad acquisire, nel corso dei loro studi, una competenza almeno passiva dell’inglese, unica lingua nella quale sono disponibili molti libri di testo. Questa competenza cresce e diventa attiva nel caso di coloro che, dopo la laurea magistrale, affrontano il dottorato di ricerca: partecipano (sia come uditori sia come relatori) a workshop e convegni esclusivamente in lingua inglese; scrivono le loro pubblicazioni esclusivamente in lingua inglese; frequentano, sovente, laboratori e centri di ricerca il cui personale, proveniente da Paesi diversi, comunica in inglese; alcuni di loro (non tutti, purtroppo) redigono in inglese la propria tesi finale e nella stessa lingua la discutono davanti a una commissione internazionale.

Lo stesso non accade agli ‘umanisti’: uno studente di linguistica italiana può superare un’intera carriera universitaria senza mai studiare un testo che non sia in italiano; in seguito scriverà la tesi di dottorato in italiano, frequenterà convegni in italiano (anche ampliando l’orizzonte alla romanistica potrebbe evitare l’esposizione all’inglese, come testimonia la pervicace anglofobia dei convegni della Società Internazionale di Linguistica e Filologia Romanza, favorevole piuttosto a idiomi minoritari come il valenzano o il provenzale) e si servirà dell'italiano per presentare, oralmente o per iscritto, i risultati delle proprie ricerche.

Se è vero che le lingue si studiano con le altre lingue, potremmo definire questo divario «paradosso del linguista e del fisico»: nei confronti del secondo, il primo si troverebbe in una condizione svantaggiata proprio rispetto a uno strumento che dovrebbe far parte del suo arsenale scientifico: l’inglese. È un po’ come se le biblioteche delle facoltà di lettere (i nostri ‘laboratori’) fossero dotate di microscopi, campioni e reagenti, che mancassero invece in un laboratorio di fisica o di chimica.

La minor familiarità con l’inglese da parte di letterati, filosofi, storici, storici dell’arte e perfino linguisti rispetto ai colleghi delle scienze ‘dure’ è un dato che ci deve indignare e allarmare non meno delle possibili ricadute del «modello Azzone» sulle diverse componenti del Politecnico e sul tessuto sociale in cui questo centro culturale è inserito. Se è giusto interrogarsi sulle conseguenze dannose che l’adozione di un modello culturale potrebbe produrre in futuro, tanto più giusto è intervenire laddove il sistema didattico tradizionale ha sicuramente già fallito.

Del resto, se l’esperimento del Politecnico di Milano dovesse imporsi su tutta la didattica delle discipline scientifiche in Italia, il che non credo, ciò non farebbe che incrementare lo scarto fra la competenza linguistica degli scienziati, forzati a una convivenza addirittura artificiosa con l’inglese, e gli umanisti, chiusi nella propria bolla italofona.

Da operatori culturali impegnati nella formazione degli studenti delle facoltà umanistiche, dunque, dobbiamo chiederci che cosa fare per affrontare questo problema.

Mi permetto di avanzare qualche proposta.

Innanzitutto l’ovvio: eliminare la lingua italiana dagli insegnamenti di lingua, letteratura e cultura straniera (sia quelli destinati agli studenti di lingue, sia quelli destinati agli studenti di altre discipline: lettere, filosofia, storia, scienze della formazione, etc. Qualora la competenza linguistica dei docenti italiani non permettesse la somministrazione di insegnamenti in lingua inglese, ciò sarebbe l’occasione per provare ad attrarre personale docente straniero, sfruttando come volano il fascino che l'Italia continua ad esercitare all’estero, soprattutto fra gli umanisti. Preliminarmente occorrerebbe tuttavia restituire dignità alla trascurata figura del lettore di lingua straniera9, categoria alla quale credo appartenga la maggior parte dei docenti universitari non italofoni attivi nel nostro Paese.

L’apertura all’inglese come lingua di insegnamento nelle nostre facoltà umanistiche, guidata da buon senso e oculatezza, dovrebbe avvenire secondo modalità differenti e seguendo schemi variabili, dettati dalle circostanze. La scelta di impartire un insegnamento in inglese potrebbe essere suggerita dall’opportunità, da parte di un ateneo, di reclutare un valido docente anglofono o non italofono. In altri casi sarebbe la natura della disciplina a orientare la preferenza per l’una o per l’altra lingua: ammesso che fosse possibile, non avrebbe alcun senso impartire in inglese un insegnamento di filologia e critica dantesca o di letteratura italiana; non c’è invece ragione per escludere a priori questa possibilità in un corso di geografia, storia della filosofia o linguistica generale. I temi di uno specifico programma possono anzi far pendere la bilancia dalla parte dell’inglese: affrontando la filosofia del linguaggio di Quine e Davidson, si trarrà giovamento da un approccio ai testi e ai problemi nella lingua in cui gli uni e gli altri sono stati formulati.

La scelta dell’inglese non comporta necessariamente una rinuncia all’italiano: si possono prevedere, nell’ambito di uno stesso corso, moduli in lingue diverse (scelte in base ai criteri appena enunciati); nel caso di una materia impartita su due ‘canali’, se ne potrebbe prevedere uno in inglese e l’altro in italiano. Iniziative simili, del resto, sono all’ordine del giorno in Paesi o regioni con bilinguismo sociale riconosciuto a livello ufficiale (è quanto accade, ad esempio, nella città di Valencia).

Anche una maggiore apertura alla bibliografia in lingua straniera avrebbe ricadute positive, sia sul piano delle competenze linguistiche sia su quello delle competenze culturali.

Le configurazioni possibili sono molte e non si esauriscono nel mio breve elenco di proposte, meramente esemplificativo: queste e altre iniziative avrebbero come obiettivo quello di migliorare la conoscenza dell’inglese della popolazione universitaria, conoscenza che diventerebbe una condizione necessaria per poterne fare parte, tanto come studenti quanto come docenti.

Per migliorare il livello di conoscenza dell’inglese degli studenti italiani, Vittorio Coletti propone di «[p]retendere che scuola e università diano una perfetta conoscenza dell’inglese, con corsi in inglese di questa lingua, dalle elementari alla laurea» (vedi p. 5 di questo volume), aggiungendo che «[i]l possesso dell’inglese dovrebbe diventare un prerequisito per l’accesso a qualsiasi facoltà universitaria e tipo di lavoro a contatto col pubblico». Si tratta di affermazioni condivisibili che tuttavia, a mio parere, non additano una vera via d’uscita dall’annoso problema. Parlare di prerequisito per l’accesso a qualsiasi facoltà universitaria, in effetti, equivale a scaricare sulla scuola non solo la responsabilità del problema, il che può essere condiviso, ma anche l’onere della soluzione, il che è discutibile e poco realistico. L’università non può limitarsi a prendere atto del degrado in cui versa lo stato culturale delle sue matricole, adeguando i programmi alle loro ridotte competenze, ma deve mettere in atto strategie per compensare, entro i limiti del possibile, le carenze dovute al sistema scolastico.

Aggiungo un’obiezione di tipo metodologico: l’idea che, esclusivamente attraverso corsi di LS (impartiti in Italia a classi italofone), si possa dotare i nostri scolari e studenti di una perfetta conoscenza dell’inglese, mi pare eccessivamente ottimistica. L’esperienza di apprendente LS/L2 mi suggerisce l’idea che i corsi in classe, preziosi per impadronirsi dei fondamenti di una lingua (p. es. la grammatica e il vocabolario di base), sono meno efficaci ai livelli più elevati di apprendimento (mi riferisco al livello C del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue); quando l’arsenale di risorse per interpretare e produrre enunciati in LS lo consente, è utile piuttosto esperire la lingua in situazioni concrete di livello ‘alto’. Non sono sufficienti, cioè, l’ascolto più o meno passivo di canzoni, o le interazioni elementari di cui si è protagonisti durante una vacanza all’estero: un ambiente universitario parzialmente anglofono costituirebbe occasione di confronto con la produzione e la ricezione di testi scritti e orali complessi, quanto ai contenuti e quanto alla lingua.

Chiunque abbia imparato una LS (lingua straniera studiata nel proprio Paese) o una L2 (lingua straniera studiata «sul posto») sa certamente quanto sia utile, didatticamente, «fare cose con la lingua», in accordo con il noto aforisma di plurima attribuzione: dimmi e io dimentico; mostrami e io ricordo; fammi fare e io imparo.

Ci sarebbe inoltre un considerevole vantaggio pratico: un risparmio notevole in termini di tempo, considerando che la lingua sarebbe esercitata durante l’acquisizione di altre competenze. Corsi di lingua come quelli cui allude Coletti precederebbero la didattica anglofona, fornendo gli strumenti di base per poterne trarre il massimo profitto linguistico, ma potrebbero altresì affiancarla, colmando eventuali lacune o costituendo momenti di riflessione metalinguistica su strutture imparate con la pratica e bisognose di una sistematizzazione a livello teorico.

Desidero concludere questa serie di riflessioni con un cenno a una varietà linguistica presa di mira da più parti nel corso della tavola rotonda e del dibattito che l’ha preceduta: il basic English o, nella formulazione che Massimo Fanfani ha attribuito a Giovanni Nencioni, «inglese congressuale». Una varietà di inglese internazionale, ‘pidginizzata’, deculturalizzata e semplificata (per non dire degradata) rispetto al modello letterario britannico e angloamericano. Nella pratica esclusiva del basic English, unica lingua veicolare negli ambienti delle scienze ‘dure’, si anniderebbe il rischio di un impoverimento linguistico e culturale, dovuto sia alla povertà sia alla funzionalità del codice: proprio quest’ultima, anzi, demotiverebbe i suoi fruitori dallo sforzo di apprendere altre lingue di cultura, sforzo che sarebbe percepito come non necessario. Dunque uno studente rumeno del Politecnico di Milano, così come uno scienziato cinese del CERN, non sarebbero stimolati ad apprendere l’italiano o il francese, necessari per un’integrazione effettiva fra comunità accademico-scientifica e comunità linguistica ospite. Questa tesi, enunciata in più modi e teoricamente ineccepibile, denota tuttavia la scarsa conoscenza, in chi la sostiene, della prassi linguistica che caratterizza i centri di ricerca internazionali. A fianco dell’inglese veicolare, più o meno basic, condiviso dall’intera comunità e usato in via esclusiva nelle occasioni ufficiali, gli idiomi nativi dei ricercatori continuano ad essere praticati, all’interno di gruppi più o meno vasti e più o meno omogenei. La pratica di questi idiomi è anzi il motore di fenomeni, non rari, di interferenza linguistica: creazione di varietà di compromesso fra lingue affini, sviluppate ad interim per assolvere a scopi comunicativi pragmatici o ludici (li chiameremmo pidgin, enfatizzando il fenomeno), ma anche acquisizioni più stabili e rilevanti. Non di rado in questi ambienti internazionali si imparano nuove lingue straniere, da quella ufficiale del Paese in cui si trova il laboratorio a quelle parlate dai colleghi, quando la distanza tipologica dalla propria lingua materna lo permette: spagnoli imparano l’italiano, italiani imparano il francese, portoghesi imparano lo spagnolo, inglesi imparano il tedesco. I risultati di questo apprendistato, irregolare e apparentemente immotivato, possono essere sorprendenti. Lungi dal frenare le spinte verso il plurilinguismo, il basic English ne costituisce proprio la premessa fondamentale. Le relazioni, umane e professionali, che veicolano questi processi di apprendimento spontaneo, nascono grazie a una prima piattaforma linguistica comune; solo in un secondo momento si attivano scambi di altro tipo.

Avanzo inoltre un’ipotesi, che meriterebbe di essere contestata o confermata con dei dati: siamo certi che il basic English sia ‘nemico’ del vero inglese e non possa piuttosto costituire una tappa di avvicinamento a quest’ultimo? «Facendomi le ossa» sull’inglese scientifico e congressuale, all’università e in ambienti come quelli poc’anzi evocati, non acquisirò piuttosto risorse che potrò spendere anche in circostanze diverse? L’abitudine a leggere articoli o a partecipare a seminari in inglese sarà davvero così inutile allorché mi si metterà fra le mani un romanzo di Hemingway o mi si regalerà un biglietto di platea per la rappresentazione di una commedia di Shakespeare?

L’impressione è che le comunità scientifiche internazionali, cementate attorno all’inglese «deculturalizzato e pidginizzato», rappresentino oggi alcuni fra gli ambienti culturalmente e linguisticamente più ricchi, aperti, tolleranti e curiosi.

Il rischio, paradossale, è che le facoltà umanistiche precludano agli studenti non solo l’accesso al «mercato del lavoro», ma anche quello alla vera cultura, continuamente invocata per motivare l’esistenza stessa di tali facoltà. Una parte importante di questa cultura, oggi, è anglofona; seguire un notiziario della tv statunitense o attingere, attraverso la rete, a fonti giornalistiche straniere, dovrebbe rientrare fra le abilità e fra le abitudini di un individuo colto con una formazione umanistica di ampio respiro.

I linguisti romanzi sono soliti difendere le ragioni del plurilinguismo: non si vive di sola anglofonia. Mi riesce tuttavia difficile credere che chi non abbia una solida conoscenza dell’inglese, nel 2012, possa averne di altre lingue, se non per ragioni legate a vicende del tutto personali (ad esempio condizioni di bilinguismo presenti in famiglia).

Ben venga la difesa del plurilinguismo, favorito e costruito sulla base di una adeguata conoscenza della lingua franca per eccellenza. In un contesto di ridotte competenze linguistiche esiste invece il pericolo di asserragliarsi in trincee monolingui; pericolo tanto più grave considerando una comunità linguistica tutto sommato ristretta e a carattere quasi ‘nazionale’ come la nostra.

Le iniziative intraprese dal rettore del Politecnico hanno sollecitato la difesa dello status dell’italiano quale lingua di cultura e di produzione del sapere. Forse è possibile andare oltre, cogliendo l’occasione per riflettere sui settori a noi più vicini: confrontando il modello milanese con quello tradizionale delle facoltà umanistiche, possiamo arrivare a una felice ed equilibrata sintesi, attraverso cui rinnovare l’offerta didattica, così come l’anima stessa delle nostre discipline, a rischio di soffocamento entro sempre più angusti ghetti culturali e linguistici.

[da Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, a cura di Accademia della Crusca, N. Maraschio, D. De Martino, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 155-162]


9 U. Spinnato Vega, L’università e l’odissea dei lettori stranieri: «Noi discriminati da 30 anni», in «Nanni Magazine», 3 novembre 2010, http://www.nannimagazine.it/articolo/5966/L-universita-e-l-odissea-dei-lettori-stranieri-Noi-discriminatida-30-anni.

[Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica]

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